Dopo l’articolo pubblicato sul Corriere della Sera dell’8 giugno scorso, attraverso il quale il quotidiano di via Solferino informava della vicenda della fuga dei titolari del centro low-cost e dei disagi per pazienti e dipendenti, il presidente della CAO di Milano, Valerio Brucoli, scrive al direttore del quotidiano.
Gentile Direttore,
l’articolo di ieri, 8 giugno, sulla chiusura di uno studio dentistico a Milano per fuga (truffaldina) dei titolari mi ha indotto ad inviarLe qualche riflessione su di un certo modo di fare odontoiatria. Non per il caso in sé, in qualsiasi tempo o settore si sono registrate delle truffe, ma per il contesto che propone e di cui nessuno si meraviglia più.
E’ significativo l’elenco dei tanti personaggi nominati nell’articolo, a vario titolo afferenti alla “poltrona” di quello studio: i due titolari, con un ruolo non meglio definito di imprenditore/finanziatore/amministratore/gestore; dieci tra centraliniste e segretarie, di cui una alla reception che si oppone alla debacle con calma e gentilezza; una responsabile (deduco dal fatto che non fosse presente) amministrativa, raggirata e meravigliata; un responsabile sanitario, figura sottointesa ma obbligatoria per legge, che non mi meraviglierei se neanche ci fosse; il direttore della comunicazione della Vitaldent, ex fornitrice del marchio in franchising fino allo scorso novembre, disposto ad aiutare i vecchi clienti non si sa se per questione di immagine o per il senso di colpa di aver promosso pubblicitariamente qualcuno di indegno; quattordici dentisti che immagino con l’amletico dubbio (vista la differenza tra ciò che si razzola, il libero mercato, e ciò che si predica sempre meno, il Codice Deontologico) se la prima responsabilità fosse verso il datore di lavoro o il proprio paziente.
“Last but not least”, quella parte dei seimila clienti/pazienti (sarebbe interessante sapere come venivano considerati nello studio in questione) “imbestialiti” perché, tra l’altro, si trovano a pagare molto di più quello che probabilmente pensavano di pagare molto di meno (questione resa drammaticamente più grave dalla crisi). Persone alle cui storie si aggiungerà, oltre al furto di soldi, il danno della fiducia tradita.
Una fiducia che, seppur confermata da quel 75% di pazienti che identificano lo studio dentistico (inteso come studio medico/odontoiatrico e non come supermarket della sanità) con il proprio dentista, sembra patire l’attacco di un sistema sempre più ricco di “businessman” maggiormente interessati alla vendita di prestazioni che alla tutela della salute. Lo dimostra l’episodio riportato che purtroppo, però, non è unico.
Quello che serve è accelerare al massimo una riforma delle professioni che dovrebbe definire quando si deve fare informazione e non pubblicità; stabilire il ruolo delle società nell’ambito delle professioni protette; confermare le peculiarità delle professioni intellettuali quali garanti di diritti costituzionali (salute, giustizia, ecc.) oltre che di parte.
Il tutto prima che un certo tipo di rapporto medico/paziente (quello basato sull’Alleanza Terapeutica) faccia la fine dei calzini e delle scarpe logore lasciate nella valigia – trucco dai nostri due titolari: da buttare.