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Rendere “utile” l’EBM; pubblicata su Lancet una proposta. Abbiamo chiesto al prof Carlo Guastamacchia un commento
[mercoledì 8 luglio 2009]

Due autorevoli esponenti dell’EBM, Iain Chalmers e Paul Glasziou, affrontano in un articolo sulla prestigiosa rivista Lancet del gruppo editoriale Esevier il problema della ricerca medica. In particolare della produzione e pubblicazione di studi inutili ed invece della mancata divulgazione dei risultati di ricerche utili.

Per impedire lo spreco di risorse che tutto ciò comporta, secondo gli autori si deve: coinvolgere pazienti e operatori sanitari nella scelta delle problematiche da indagare; intensificare la formazione nella valutazione e produzione di ricerche scientifiche (critical appraisal); inserire i nuovi studi nel contesto della ricerca già esistente; incoraggiare il libero accesso a tutte le informazioni relative ai trattamenti, ai test, e agli strumenti oggetto dello studio.

Questo per la medicina ma in odontoiatria il problema è lo stesso? L’abbiamo chiesto al prof. Carlo Guastamacchia, direttore scientifico di Dental Cadmos storica rivista italiana edita sempre dal gruppo Elsevier.

"Occorre che tutto quanto è stato fino ad oggi esaminato in chiave EBM (Evidence Based Medicine) –ci dice il prof. Guastamacchia- venga comunque considerato secondo l'ottica POEM (Patient Oriented Evidence that Matters). Questo nuovo acronimo, come è facile comprendere, è l'espressione di una corretta preoccupazione di clinica personalizzata e non, come spesso accade per l'approccio EBM, di semplice (spesso insufficiente) approccio di ricerca statistica. Pertanto quanto suggeriscono Chalmers e Glasziou è, senza dubbi o equivoci, il minimo che ci si possa augurare e si possa suggerire in materia di "pubblicazione e divulgazione dei risultati di ricerche utili".

“Come appare implicito nella proposta dei due illustri “EBMisti” –continua il prof. Guastamacchia- l'EBM deve evolvere in senso POEM, altrimenti entrerà progressivamente in un vicolo cieco, in cui si ammasseranno ricerche inutili a priori (non di per se, ma perché non valutabili per mancanza di protocolli simmetrici) e inutilizzabili clinicamente, perché troppo legate ad un modo astratto di concepire la clinica”.

 


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